Articoli di Mario Guarna

 

MOMENTI E PROSPETTIVE DELLE PRATICHE FILOSOFICHE

 

PREMESSA

L’obbiettivo primario di questa esposizione non sarà quello di fornire un’ introduzione generica e generale delle pratiche filosofiche, quanto piuttosto la ricerca di un’ evidenza davvero essenziale, che consenta di mostrarne la peculiarità e l’attuazione, avendo come punto di riferimento costante e privilegiato il valore del confilosofare.

 

INTRODUZIONE

Le pratiche filosofiche sono la coerenza della filosofia, perché mettono in pratica quello che predicano. La loro finalità principale, non è data dalla produzione di “sapere”  (conoscenza codificata attinenti per la quale si creano delle comunità di studiosi e specialisti in alcune materie filosofiche), ma dalla consapevolezza di “saper essere”(capacità di produrre una consapevolezza del proprio sé e l’apertura verso l’altro da sé). Quest’attitudine avviene attraverso l’attività con-dialogica e la domanda filosofica, che collocano le pratiche filosofiche in un tempo e in uno spazio dedicato al confilosofare. La filosofia, in questo contesto, è intesa soprattutto come un “filosofare in comune”: attività e non dottrina, prassi comunitaria al di là  della ristretta specialistica del settore. La dimensione del pensiero del vivere, come carattere originario della filosofia, viene esplicato nelle pratiche filosofiche come uguaglianza di possibilità per tutti i “soggetti esperenti” di partecipare e comprendere la riflessione su se stessi e su quello che li circonda; Questo processo indirizza il soggetto all’acquisizione di un “saper(ci) fare” nella propria esistenza, come saggezza mondana.

 

  1. LE PRATICHE FILOSOFICHE COME PRASSI SOCIOCULTURALE

  Le pratiche filosofiche nella società contemporanea, come in quella antica, operano nelle attività del vivere quotidiano(educazione, lavoro, formazione, sfera privata e tempo libero). In questi fenomeni socio-culturali, le pratiche filosofiche si propongono di produrre effetti di trasformazione e di comprensione tramite il ricorso al “confilosofare”, dove si metterà in atto uno spazio – tempo nel quale le consuetudini, presupposti impliciti e pregiudizi sono sospesi, per essere indagati criticamente ed eventualmente modificati, in questo atto riflessivo di indagine, il confilosofare diviene una condizione di possibilità, dove la spiegazione universale cede il passo alla “risposta locativa” collocata nel “qui ed ora”. Rispetto alla  comunità autoritaria, le pratiche filosofiche non impiegano i tratti del dialogo unidirezionale (che prende in considerazione solo una delle parti dell’ intero), ma quello del confilosofare, dove un gruppo di persone riflettono in modo reciproco sul quando, dove e come vivere e comprendere la propria esistenza. Nella comunità filosofica l’uditorio non è più un soggetto passivo che riceve delle nozioni prestabilite dall’esterno, ma l’attore che partecipa attivamente a un percorso filosofico, attraverso un dialogo diretto, tra soggetti esperenti all’interno della comunità.

 

2. LA COMUNITA’ FILOSOFICA COME LUOGO DEL CONFILOSOFARE

La comunità filosofica è lo spazio dove le pratiche filosofiche mettono in atto il confilosofare. Il suo stato è quello di essere in divenire, dove il “soggetto esperente” non sta semplicemente vicino ad un altro “soggetto esperente”, ma insieme fanno un esperienza reciproca per comprendere, esprimere e partecipare alla coesistenza, tutto questo avviene grazie all’attività con-dialogica del filosofare.
Il “soggetto esperente” evidenzia l’individuo come agente, che all’interno del confilosofare si ritrova ad essere desideroso di comprendere, esigente e interessato, di pensieri altri, oltre a quelli in cui esperisce come condizione incompleta.   Il  soggetto esperente è un essere che sa carpire stimoli, indicazioni, che sa ancora stupirsi ed impressionarsi, che non resta legato al suo  pensiero elitario. Questo processo rimanda al riprodursi delle esperienze filosofiche, ma non al loro consumo, rimanda al moltiplicarsi delle narrazioni e dei contenuti, ma non all’esclusività. Un percorso intriso di eventi quotidiani che possono apparire banali, di significati compresi, dispersi e nuovamente ghermiti e poi orditi dentro le contraddizioni della coesistenza con i suoi momenti a volte eloquenti e a volte insulsi.
All’interno della comunità filosofica le norme, le regole che i dogmi filosofici impongono non hanno più validità, una locazione non esclusiva dove il confilosofare diventa un atto riflessivo e condiviso di indagine sulle condizioni di possibilità. Il dialogo filosofico non viene fornito da precettori che si tratta di subire e far trasmettere, ma deve essere aperto e esperito da tutti i partecipanti, al fine di creare un tempo di riflessione , di con- senso e con-vivenza a partire dalla condivisione del pensiero e dalla ricerca di consapevolezza.
Il confilosofare deriva dalla ri-conoscenza reciproca, che ha sua volta richiede partecipazione e quindi che si realizzi il “filosofare in comune”, e richiede, non ultimo, anche l’uguaglianza di possibilità. La comunità filosofica deve ri-conoscere l’unicità del pensiero individuale e valorizzare la sua partecipazione alla realizzazione di se stessa.
Un altro fattore molto importante per partecipare ad una comunità filosofica, è quello della spontaneità. Il soggetto esperente che vive, dialoga e pensa all’interno della comunità filosofica, deve vivere  tutte queste attitudini, senza pensare di perdere qualcosa, ma nemmeno con l’idea di conquistare qualcosa d’altro.

 

2. IL CONFILOSOFARE COME ANIMAZIONE DELLE PRATICHE  FILOSOFICHE

 C’è confilosofare là dove degli “esseri esperenti” escono dall’isolamento e progressivamente accettano di far parte di un “filosofare in comune”, in cui riescono ad accettare un forma d’interpendenza gli uni con gli altri, all’interno di un percorso comune accettato con consapevolezza e perseguito con passione. Ovviamente il confilosofare non è un’ evento stabilizzato, ma piuttosto un processo di trasformazione graduale, fatto di confronti e di prospettive. Non c’è d’altra parte confilosofare se non là dove ci s’immerge nel “pensare reciprocamente”, in un dialogo che si fa “incontro”, deciso insieme e insieme orchestrato a partire da una prima elaborazione della domanda filosofica per poi continuare con degli stimoli che allargano la frequenza delle riflessioni plausibili. Il confilosofare fa sua l’idea del comprendere praticando. Ogni filosofare comunitario comporta sempre un uscire da se stessi, un protendersi verso: verso altre narrazioni, verso altre accezioni e punti di vista sulla realtà, verso ciò che chiede comprensione e lo chiede in modo gratuito. Da questo punto di vista il confilosofare è un esperire indistintamente, se per esperire indistintamente s’intende uscire dalle regole dominanti e da verità incontrastabili a cui si fa riferimento dal proprio mondo di vita, per inoltrarsi  in spazi inesplorati, mettere in discussione principi stabiliti, trovando il coraggio di non fermarsi alla prima difficoltà. Nel confilosofare, il dialogo non deve essere attuato attraverso un “eloquenza luttuosa” o trascrizioni del pensiero di filosofi del passato, ma deve essere fatto di “parole vive”, che indicano direttamente la riflessione di ciascun essere esperente e che devono avere una rilevanza immediata nel percorso verso la comprensione di sé stessi e dell’altro da sé stessi. In tal senso, il dialogo filosofico  potrebbe essere visto come un tipo di dialogo performativo, il cui significato deriva non tanto dalla sua intelligibilità, quanto dalla sua capacità di stimolare la riflessione, ovvero dalla sua qualità performativa. Quindi il dialogo filosofico non deve essere più visto come un mezzo che conduce ad un fine, ma come mezzo che incarna il fine.
La funzione del confilosofare è duplice, in quanto da una parte, costituisce dei criteri in base ai quali viene giudicata l’autenticità della comprensione, dall’altra, rappresenta degli espedienti grazie ai quali quei criteri possono essere raggiunti e realizzati.

 

3. LE PRATICHE FILOSOFICHE COME METODO PRATICO ESISTENZIALE

  Le pratiche filosofiche prendono forma attraverso lo strutturarsi di una “narrazione esistenziale”. Non c’è pratica filosofica dove non c’è incontro. Questa relazione si costruisce e si mantiene attraverso determinati processi.
In primo luogo la “coesistenza” (filosofia del vivere). Le pratiche filosofiche si collocano all’interno della la situazione, la “vivono” senza con-fondersi con essa.
Il filosofo si applica effettivamente all’ occasione,  partecipandovi con apertura e aderendo spontaneamente al momento, ciò non toglie che il suo “io”, chiuso nella sua interiorità, non vi deve essere implicato. Il filosofo non investe la situazione del suo “ego”, in quanto individualità.
La coesistenza delle pratiche filosofiche è così strettamente legato all’ “ospitalità”.  Le pratiche filosofiche si sostengono sull’ accoglienza  degli esseri esperenti e della loro capacità di essere vitali (pensare - esprimere - partecipare ) , un’ ospitalità incondizionata, denominata filosofia della possibilità.
Il coesistere e l’ospitare chiedono di essere coniugati con un'altra operazione quella di “creare possibilità”. Le pratiche filosofiche possono realizzarsi efficacemente quando la trama dei rapporti si colora di apertura, quando la possibilità comincia a circolare tra i soggetti in questione.
Creare possibilità richiama un’altra operazione: il confilosofare. Le pratiche filosofiche esprimono se stesse dentro un pensare comune.
A queste operazioni ne va aggiunta un'altra, che si colloca in una posizione trasversale. E’ lo “stimolare”- la provocazione è il cercare di creare un rapporto tra soggetti e il significato chiede di essere elaborato, espresso, attuato. L’incentivare non è solo una esecuzione, ma una “significazione”. Il filosofo è colui che “stimola” – “chiama fuori”, “invita verso”.
Il filosofo, che all’interno della comunità filosofica diviene “provocatore intinerante”, non sceglie la filosofia “per mestiere”, ovvero sulla base di motivazioni di tipo scientifico – tecnico, ma per “dar da pensare”, le sue parole non devono istruire, sarà l’”essere esperente” a dover pensare e attuare la sua trasformazione. Gli enunciati del “provocatore intinerante” hanno una duplice caratteristica, indottivi e indicativi al tempo stesso: indottivi, nella misura in cui non istruiscono, non mirano a dar lezioni, ma tendono a stimolare il pensiero del destinatario; indicativi, perché si limitano a suggerire e si accontentano di evocare senza significare.
Questi enunciati indottivi e indicativi non forzano il pensiero, essi vi s’infiltrano e annacquandosi in esso, lo “irrorano” e lo seminano. E di conseguenza, un getto si espande continuamente, lievissimamente , gradualmente. Il pensiero si spande in modo discreto, porta continuamente a scorgere altre prospettive, non ancora esplorate.

 

CONCLUSIONE

Come si è evidenziato nella dissertazione, le pratiche filosofiche incontrano l’”essere esperente”nel suo essere incompiuto e sollecitato da un insaziabile bisogno di evidenza e con-senso. Durante la sua partecipazione all’interno della comunità filosofica egli esce dal mondo delle verità prestabilite e intraprende un percorso interrogando se stesso e la realtà che lo circonda alla ricerca della congruenza esistenziale.
Per e con questo soggetto cercante le pratiche filosofiche dispongono un percorso di realizzazione (prendere coscienza di ciò che si vive, di ciò che si sa), giocato sulla forza propulsiva della vita. La tensione del  processo vitale, essenza di fondo del “saper essere”, suggerisce alle pratiche filosofiche di prestare attenzione alla comprensione da suscitare, promuovere e far esprimere in ciascun soggetto esperente. L’intervento delle pratiche filosofiche agisce nella direzione della riscoperta della comprensione soggettiva, sulla quale un organico piano di realizzazione a vantaggio della persona.
Dalla sollecitazione della comprensione e dell’apertura nei confronti della coesistenza, l’essere cercante coltiva il desiderio del confilosofare e si apre all’intreccio delle relazioni.
In questa prospettiva, le pratiche filosofiche fanno proprio il principio del con-fronto del soggetto cercante, in virtù del quale lo scambio di riflessioni reciproche condotto nel rispetto delle diversità e della liberta dei soggetti favorisce la realizzazione autentica. Nell’intervento della comunità filosofica il presupposto della concordanza diviene così obiettivo da perseguire attraverso l’attività con-dialogica. Nel confilosofare il soggetto cercante articola e precisa il suo essere mancante e, al tempo stesso, condivide e arricchisce il quadro delle riflessioni della comunità filosofica.
In questa medesima condotta, le pratiche filosofiche promuovono la scoperta del pensare in comune. Confilosofare è l’animazione filosofica che permette di realizzarsi, è prendere coscienza di ciò che ci circonda, è vivere spontaneamente il corso del mondo e il corso della condotta.   

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LA CONSULENZA FILOSOFICA E LA DIMENSIONE DELLA CURA

Intervista a Mario Guarna
A cura di Apostolos Apostolou

 

PREMESSA

Questa intervista (filosofica) nasce da un incontro tra il filosofo greco Apostolos Apostolou e il  filosofo italiano Mario Guarna. L’argomento trattato è quello della consulenza filosofica, la sua importanza in una società complessa come la nostra e la cura come strumento quanto mai utile in questi tempi di crisi del pensiero e della ragione.  

INTRODUZIONE

Scrive Achenbach: “ Il bisogno che l’individuo sviluppa è la pretesa di essere visto e capito, considerato e accettato come se stesso: come quello che è, e non come colui che a questa caratteristica, malattia, nevrosi o quel particolare sintomo […]. La consulenza filosofica cerca di rendere giustizia a quest’esigenza, il che significa: essa non è una nuova terapia, anzi essa non è affatto una terapia. La filosofia deve diventare pratica, azione comunicativa, esplorazione e organizzazione dialogica dei problemi, critica della “comunicazione distorta” e di ogni “trattamento”.”
(Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo Milano, 2004, pagg. 65-66)

Le parole di Achenbach evidenziano una netta distinzione tra psicoterapia e consulenza filosofica. Il nucleo della consulenza filosofica è il soggetto esperente e non patologico, un soggetto che pensa,  esprime e partecipa, dove il filosofo non occupa una posizione di predominio, ma si pone sullo stesso piano del soggetto esperente, il dialogo fra i due è vivo e reale.

La cura della consulenza filosofica, non avviene attraverso la prescrizione di farmaci o terapie, ma crea delle condizioni affinché il soggetto cercante diventi consapevole di sé e allo stesso tempo avendone cura, che sappia scegliere un esistenza più autentica, ossia che corrisponda al suo modo di essere.

Domanda. Che cosa è in grado di offrire la consulenza filosofica oggi?

Risposta. In un società complessa come quello in cui viviamo, la consulenza filosofica può svelare quando e dove l’impedimento a un modo di vivere spontaneo si manifesta generando inquietudine;  il suo obiettivo è quello di ricollocare, attraverso il confilosofare, l’uomo al centro della sua quotidianità, per farlo diventare un custode di significati, di una concezione comprensibile e globale, per opporsi alla frammentazione della visione complessiva.

Domanda. La consulenza filosofica nasce come aiuto, come ausilio per affrontare le problematiche esistenziali, questo non succede anche con la psicoterapia? Esiste una differenza?

Risposta. La sostanziale differenza tra la psicoterapia e la consulenza filosofica, consiste nella  considerazione del soggetto esperente e delle sue problematiche esistenziali. La psicoterapia considera quest’ultimo come un’ essere patologico da curare e i suoi dilemmi come casi da trattare. La consulenza filosofica da parte sua, contempla con meraviglia, l’uomo come essere “cercante”, che pretende di essere capito e accettato per il suo “essere così” e non altrimenti. Non ha caso, fu proprio Heidegger a dire, che lo stupore e la meraviglia sono le tonalità affettive fondamentali del filosofare. Proprio nel senso di un aprirsi all’ascolto.   

Domanda.  Possiamo dire che la consulenza filosofica apre la strada per l’autorealizzazione?

Risposta. L’autorealizzazione nasce da una coscienza consapevole del proprio essere, dei bisogni personali, delle potenzialità soggettive, dei propri limiti e fragilità. Il compito della consulenza filosofica, per aprire un varco all’autorealizzazione,  è quello di ri-scoprire l’aver cura verso l’altro da sé attraverso forme che rimandano alla gratuità del confilosofare, dunque attraverso un approccio che permette all’uomo d’incamminarsi verso la propria autorealizzazione, personale e di gruppo, nel darsi un  valore di ciò che si è a ciò che si vuole diventare, nel pensare in comune gratuito che non richiede ricompensa, ma pure genera un legame profondo, una grande empatia che porta a farsi gratuitamente carico della dedizione dell’altro in quanto altro.

Domanda. Un ulteriore problema si pone con il metodo della consulenza filosofica, cioè esistono metodi differenti come di Tim Ledon, di L, Marinoff, di G. Anhenbach, di Ran Lahav, di P. Raade. Quali mezzi e quali caratteristiche assume il dialogo tra consulente e consultante?

Risposta. Il dialogo filosofico ha la caratteristica dell’ alternanza, che è in grado di rispettare la diversità e quindi l’unicità del essere esperente e del filosofo, ma nello stesso tempo consente l’attuazione di un percorso comunicativo in cui queste stesse diversità possano divenire reciproca ricchezza.
Con-dialogare è un’ abilità complessa che si fonda su alcune capacità comunicative ed esistenziali particolari che sono: l’alternanza di messaggi e silenzio e l’esperire insieme dialogando. 
. Il principio dell’alternanza è quello in cui il tempo della trasmissione deve  essere seguito dal tempo della ricezione. Questo significa che ogni   partecipante del dialogo filosofico non devo solo emettere messaggi, ma anche produrre dopo di esso spazi di silenzio in cui poter ascoltare e interpretare il pensiero dell’altro.
Produrre spazi di silenzio deve essere inteso come una azione tesa ad attuare la contemplazione dell’altro.
 L’evento del silenzio  consiste nel far tacere se stessi, la propria visione del mondo, i propri pregiudizi per cercare di cogliere l’altro nella sua autenticità e, soprattutto, collocandosi dal suo punto di vista.
. La riflessione intorno all’esperire insieme, consente ai partecipanti di tradurre nel proprio linguaggio quello dell’altro e, nello stesso tempo, di acquisirlo. Filosofare insieme dialogando, ovvero il vivere degli eventi insieme riflettendo poi su di essi, è l’unica via attraverso cui si può con-dialogare perché è quella che consente la creazione di codici di traduzione da un linguaggio all’altro e da un pensiero all’altro.

 

CONCLUSIONI

Dal dialogo (domanda/risposta), scaturisce l’importanza della consulenza filosofica nella società contemporanea. Il suo compito è quello di riportare l’uomo al centro della sua esistenza, facendolo diventare consapevole del suo valore e del suo modo di essere, senza che questo venga ingabbiato dentro le contraddizioni del suo tempo e del suo habitat.
La consulenza filosofica porta il soggetto esperente/cercante alla sua autorealizzazione attraverso la cura di sé, dove il confilosofare diviene un dialogo d’incontro, che permette di darsi un valore di ciò che si è e di quello che si vuol essere.
In questa società della farmacologia, la consulenza filosofica riscopre l’aver cura di sè attraverso il confilosofare,  attraverso un approccio che gli permette di divenire una filosofia empatica, che si fa carico dell’aver cura dell’altro in quanto soggetto cercante e non patologico.

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FILOSOFOLLIA
La comprensione del senso e del non senso

 

PREMESSA

Ho coniato il termine “filosofollia”, perché sono convinto, che la follia possa riempire quella parte mancante, che la filosofia rifiuta attraverso la ragione calcolante ed esclusiva.
Ragione e follia devono essere com-prese dalla filosofollia, come le differenti, ma inseparabili, facce di una stessa medaglia. Non esiste la possibilità ultima che uno dei due abbia la meglio sull'altro, per il fatto che essi sono assai più come due amanti abbracciati che non due contendenti in lotta.
Ragione e follia sono intimamente interattivi, nel senso che ciascuno dei due non può sussistere senza l’altro, e che senza perennità che li rende interdipendenti non vi sarebbe un pensiero esauriente.
La peculiare con-vivenza che scandisce lo scambio dei due illustra l’unità sostanziale del confilosofare,  perché l’una non si somma all’altra, bensì è presente nell’altra, e quando una delle due s’impone, l’altra resta comunque potenziale e necessaria.

 

INTRODUZIONE

“O caro Pan, e voi tutti che di questo luogo siete Idii, concedetemi che sia bello io di dentro, e che tutto quel che ho fuori si concordi con quel di dentro; e ch’io reputi ricco il savio; e ch’io abbia tant’oro, quanto ne può solo portar seco colui che è temperato.”

Questa è la preghiera che Socrate, alla fine del  Fedro, pronunzia al dio Pan, affinché  lo aiuti a conoscere se stesso, a porre fine al senso d’ignoranza circa la sua propria vera natura.
Perché Socrate si rivolge proprio al dio Pan, al fine di ottenere la conoscenza di sé?
Pan è sia il dio della natura dentro di noi che della natura esterna. Come tale, Pan è la configurazione che fa da ponte e impedisce alla ragione di scindersi in metà sconnesse, divenendo così il dilemma di una natura priva di follia e di ragione senza natura,           l’esistenza irrazionale là fuori e le procedure della ragione dentro di noi.
Pan, e le ninfe, comprendono allo stesso tempo ragione e follia. Essi dicono che i momenti irrazionali sono riflessi nella ragione: dicono che la ragione è follia. Ogni filosofia che non riconosca l’identità di ragione e follia quale è presentata da Pan, preferendo un versante all’altro, non può conoscere se stessa. La  filosofia deve riconoscere che la “follia ingenua” di Pan e le sue “depravazioni comportamentali” appartengono anch’esse alla ragione. Questa nuova visione, che dà a Pan quanto gli è dovuto, può portare quella bellezza per la quale Socrate prega. E, comprendendo Pan nella sua congruenza, il dio capro può concedere la consacrazione che Socrate, e tutta la filosofia occidentale, cerca, dove ragione e follia sono una sola cosa.

 

1. I CONCETTI DI ORDINE E DISORDINE NELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE

 

  Il conflitto il più alto, che ha tormentato la filosofia occidentale, è stato il laceramento tra l'ordinato incidere della ragione che consente di abitare in un mondo ordinato e definibile, e l'insorgenza dell'irrazionale che spezza quel mondo, disarticola l'esistenza e dissolve i limiti del paesaggio indistinto dello spaesamento.
  L’irrazionalità che abita il profondo della follia rimanda infatti ad una esperienza più enigmatica e misteriosa .La follia è parola senza linguaggio e senza una voce parlante, principio indicibile di ogni senso e di ogni non senso.
Qui si scopre la debolezza della filosofia, la follia non si svela al raziocinio, ma la si avverte nel rapporto che il pensiero intrattiene con il senso dell’indefinibilità del suo essere. La follia perde il suo senso, quando è analizzata dal sapere che cerca di definire l’indefinibile. Il rapporto di esclusione da parte della ragione nei confronti della follia, per cui dove c’è ragione non c’è follia.
La ragione s’impone, la sua capacità di dominio si trasforma cosi in rappresentazione di un ordine necessario e, siccome non si conosce altro riassetto delle cose e dei segni che non sia compiuto dalla ragione, l’ordine della ragione diventa rappresentazione dell’ordine come tale.
Non più in grado di compromettere il cammino della ragione, semplicemente perché non le appartiene, la follia rimane latente alla comprensione filosofica. Il pensiero filosofico appartiene alla ragione, dubbio, ironia, scetticismo e critica, incominciano infatti solo dove c’è ragione, e precisamente  quella ragione astratta, che proprio in forza della sua astrazione, si rende immune alla follia. Nella profondità del filosofo, infatti non c’è opinione che  non sia ambivalente, non c’è passione che non sia dissolvenza di un ordine.
L’inconscio offre nel desiderio passionario la rappresentazione dell’ ambivalenza e della dissolvenza, dove la follia si esprime non appena la ragione dimette il suo controllo.
Conferma evidente che, la ragione si risolve nel suo esercizio e non ha altra esistenza se non nella reiterazione della sua azione. Per questo la ragione è spassionata, perché nasce dal governo delle passioni dell’anima, dal divieto che essa pone al loro irrompere incontrollato.
La ragione altro non è che “un certo rapporto degli impulsi fra loro” un giustificato dominio”, aveva di un balzo oltrepassato le ingenue metafisiche che ancora alimentano le dottrine psicoanalitiche, ignare già da tempo, la storia della ragione ha provveduto a liquidare quelle nozioni di anima e io su cui esse ancora costruiscono i loro edifici.
Non c’è infatti follia se non nei vuoti di ragione, cosi come si sistema di regole che consentono di ordinare la polivalenza dei segni di cui si alimenta la follia.

 

 

    2. L’ISCRIZIONE DELLA FOLLIA

 

Nelle pagine precedenti, la follia è stata presentata come il contrario della ragione, essa viene inserita in un sistema composto da regole e deroghe in cui la ragione trova la sua conferma.
Ma esiste una follia ingenua, che va al di là delle norme e delle deroghe, essa viene prima di quest’ultime; di essa non c’è filosofia che possa circoscriverla, perché la filosofia appartiene all’ordine della ragione che detiene quel teorema, che sa de-finire le cose riuscendo così a  risolvere l’ambivalenza.  

 

2.1 IL SACRO COME GIURISDIZIONE DELLA FOLLIA

 

Se la filosofia non riesce a conoscere ed interpretare la follia, l’unica che può riuscirci è la religione attraverso il linguaggio simbolico. Quest’ultima circoscrive la follia  nell’area del sacro, e allo stesso tempo la distanzia dalla comunità degli uomini e la rende accessibile attraverso rituali disciplinati. Il sacro ha creato le condizioni perché  gli uomini potessero istituire un spazio della s-ragione, il solo che può essere frequentato, senza che il fondo del caos venga rimosso, aprire uno spiraglio terribile verso la fonte enigmatica  che chiama in causa il principio stesso della ragione, perché è da quel mondo che provengono le parole che poi la ragione ordina in modo non profetico e non enigmatico.
La ragione racchiude queste locuzioni  nel “principio d’identità” e nel “principio di contraddizione”, per cui “ se questo è questo non è altro”. Principi disgiuntivi che vietano che una cosa sia “questo è al tempo stesso anche altro”, come prevede il linguaggio simbolico, di cui si alimentano i racconti sacri.
La ragione è impossibilitata, a causa di questi principi, di esclamare che uno stesso soggetto è Dio e uomo, che è buono e cattivo, che è reale e al tempo stesso astratto, come il linguaggio simbolico non cessa mai di confermarlo. Il dio, che dimora nell’area del sacro, non ha e non mantiene una identità de-finita, perciò si concede alle metamorfosi più svariate senza fedeltà e senza memoria. Il dio è buono e cattivo, maschio e femmina, reale e astratto, incarna forme diverse ogni volta che l’esigenza lo reclama.
Il sacro diviene così uno scenario indistinto, luogo dell’ambivalenza, che può essere abitato solo attraverso il simbolo (accomuna le differenze), dove non esiste l’esclusività e dove non viene riconosciuta la differenza. Per questo motivo le regole distanziano la ragione dal sacro.

 

2.2 L’INGENUITA’ DELLA FOLLIA NEL MONDO DELLA VITA

 

Ammaestrati come siamo dalla ragione esclusiva,  siamo abituati a percepire l’ingenuità come un concetto, che è rimasto nell’infanzia della filosofia occidentale.   La religione, attraverso il suo linguaggio simbolico, non scarta l’ingenuità della follia, anzi la ospita e la svela attraverso il sacro. Questo perché la religione non ha smarrito l’innocenza originaria, cosa che la classificazione della ragione ha fatto, catalogando la vita come una enciclopedia.  Frugando nell’ enciclopedie delle identità, a cui è giunto il progresso discriminante della filosofia occidentale, non ci è dato di incontrare la follia originaria come noi la viviamo, ma solo quella sfilza di termini sviliti che declamano gli epitaffi del formulario con cui di volta in volta la si è oggettivata. Come abisso da circoscrivere, come impulso da frenare, come inquietudine da rasserenare, come irrazionalità da amministrare, la follia, è sempre disgiunta dalla potenza vitale, si trova a rispettare i confini tracciati dalla ragione che, istituendo le regole ha de-finito la follia come non-senso; per questo motivo nella ragione non riusciamo ad intravedere la follia come noi la sentiamo e la esperiamo.
Qui la dialettica della ragione è manchevole, perché la follia che esperiamo non può essere com-presa da una filosofia che è tale solo per quello che riesce a catalogare e de-finire. A questo punto ci può illuminare solo la vita, dove la follia non è ancora tarchiata di iscrizioni, ma solo spontaneità, che ha nello scorrere vitale la sua congruenza e la sua adeguatezza.

 

 
2.3 LA DISSONANZA DELLA FOLLIA

 

La ragione prova inquietudine, verso ciò che non riesce a comprendere e giustificare. Ecco perché vede la follia  distinta da se stessa e si difende tracciando dei confini e alzando delle barricate. La follia viene così internata nel luogo del sacro e si può solamente proclamare attraverso il linguaggio irrazionale dell’arte. Neutralizzata la follia, attraverso la sua circoscrizione in ambiti lontani dalla ragione, viene ri-condotta alla dimensione dell’assurdo, della contraddizione e dell’irrazionale.
Per mantenere la propria identità, la ragione ha bisogno di costruirsi una realtà è un simulacro della diversità. La ragione non riesce ad avere un identità se non crea un procedimento di identificazione ed esclusione di tutto quello che non riesce a ri-conoscere, de-finire e dirimere.
La ragione in questo processo eccentrico, è come un essere ipocondriaco che costruisce è abita un rifugio, assillato da un'unica idea che qualcuno dall’esterno possa penetrare nel rifugio. Escogita ogni sorta di sistemi di sicurezza, trasforma il rifugio in labirinto trascendentale che solo lui conosce e sa percorrere.
In questo contesto l’altro (follia), che resta fuori dal rifugio, non mette in sicurezza la ragione, ma la paralizza diventando il suo tormento: la limita perché la s-confina, la tiene reclusa, la scruta rivelando il suo stato fobico e maniacale, mettendo così in crisi la sua identità.
Quale può essere la soluzione, affinché la ragione non rimanga reclusa nel suo rifugio e possa aprire la porta per ospitare la follia?

 

3. SENZA PARTITO PRESO: FILOSOFOLLIA

Non appena il pensiero è considerato separatamente, vengono a formarsi il razionale e l’irrazionale, ci sono “ragione” e “follia”. Dal momento in cui la filosofia si distingue dalla vita considerata nel suo insieme, il pensiero fa sorgere una dualità di punti di vista: vi è ciò che è visto dalla follia e ciò che è visto dalla ragione – ciò che è visto dal lato razionale e ciò che è visto dal lato dell’irrazionalità. Di qui derivano l’esclusività della conoscenza occidentale e, di conseguenza, la sua parzialità.
La filosofia conosce secondo la prospettiva della ragione, essa conosce dal un lato selettivo; dal momento in cui è presa nel confronto diretto tra ragione e follia, la filosofia è indotta all’opposizione, e la ragione afferma come “razionale” ciò che vede dal suo lato e respinge come irrazionale ciò che si vede solo dal lato della follia.
Come si esce dal confronto diretto dei punti di vista, dal faccia a faccia della ragione e della follia?
La soluzione potrebbe e dovrebbe essere la “filosofollia”, che da una posizione indistinta sappia cor-rispondere alla richiesta della situazione, una posizione che ingloba tutte le posizioni possibili e l’attenzione posta alla congruenza come modo particolare di adeguamento. Co-incidere con ogni prospettiva che si presenta, tanto quella della ragione tanto quella della follia, poiché invece di dissociarsi, le due prospettive si mettono in contatto in questa non differenziazione che è la filosofollia. Senza che la ragione o la follia abbiano l’esclusiva, la filosofollia è come l’asse di una ruota, che gira sempre dal lato opportuno; per essa tutti i versanti sono uguali, e anzi non c’è propriamente un aspetto, dal momento che il giro si compie per intero. Il che è possibile solo perché l’asse non ha posizione fissa, ma mutevole nella sua fissità, può costantemente dinamica; perché non vi è nulla che predetermini il movimento, né regole né calcoli; perché ciò che è propria dell’asse è quello di non implicare nulla come su volontà, ma di co-rrispondere ogni volta solo all’istanza del momento, seguendo il movimento indelebile: tutti i caratteri che determinano la congruenza rispetto alla idea di verità della filosofia occidentale.
Vi sono dei tranelli che minacciano le filosofie che vogliono liberarsi dei giudizi esclusivi: rinunciare alle disgiunzioni è ancora disgiuntivo; dato che, rifiutando l’esclusività, si ripropone, per il solo fatto del rifiuto, l’operazione rifiutata, il gesto è contraddittorio.
Per non ricadere nel tranello dell’esclusività proprio per il rifiuto dell’esclusività, non bisogna fissarsi al principio della non-esclusività proprio come non  ci si deve innestare a quello dell’esclusività: non arrestandosi su alcuna delle due posizioni, si resta ugualmente aperti a entrambe, e la loro esclusione si annienta.
Non si tratta di risolvere il contrasto dialettizzando la ragione e la follia per trovare un livello superiore ad essi nella quale ritrovare la loro giustificazione; si tratta invece di elevare nessuna delle due, in modo di poterle comprenderle liberamente entrambi, e di non trovarsi circoscritti da nessuna prospettiva.
Ciò che è proprio della filosofollia è che, come l’asse della ruota, non resta puntata su nessuno lato: dato che lascia subito tanto l’uno quanto l’altro, è sempre pronta a girarsi verso l’uno o verso l’altro.
La filosofollia non deve essere ragione che de-finisce la follia o la follia che sfugge alla circoscrizione della ragione. Sicuramente, essa è composta da ragione e follia.

 

    

CONCLUSIONE

 

La filosofollia  non è un modo di pensare in modo unilaterale, ma pensare ogni volta dall’angolatura dalla quale si dispiega la realtà ( in un modo che non è conoscitivo ma comprensivo, in rapporto all’esistenza: la filosofollia  sta nel pensare sempre dal versante dal quale è giusto farlo). Il pensiero non deve essere avvenuto, tracciando giudizi sul vero e sul falso, sul bene e sul male, dissociare la vita, ovvero contrapporla a se stessa. La filosofollia percepisce ogni volta da dove si manifesta la coerenza, la sua comprensione è euritmica; invece di pensare in modo inflessibile, restando ancorata alla propria posizione, la sua comprensione volge per “cor-rispondere” a ogni situazione e non smette di “con-formarsi”. Ebbene, invece di arenarsi nelle esclusività, il pensiero può accedere all’”esser così” della vita. Senza che ragione o follia vengano esclusi o smarriti a vicenda. Il pensiero “aperto” della filosofollia, il contrario del pensiero avvenuto, si con-forma all’ambivalenza del mondo.
È dunque solo se si abolisce la distinzione tra ragione e follia, come visto nella metafora dell’asse della ruota, e,  a partire da quella, che si può ri-scoprire l’immanenza della vita. Nella filosofollia il pensiero si fa “vuoto”: non è occupato dal alcun partito preso, non si lascia circoscrivere da alcun categorico, dunque non subisce l’esclusività.
Per completare possiamo annunciare che, se si vuole vedere esaudita la  preghiera rivolta da Socrate al dio Pan per “conoscere se stesso”, bisogna abbandonare la via dell’esclusività e inoltrarsi verso l’apertura che conduce all’immanenza della coesistenza.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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UMBERTO GALIBERTI, Orme del sacro, Feltrinelli, 2000
UMBERTO GALIBERTI, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005
UMBERTO GALIBERTII miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009
PIER ALDO ROVATTI, La follia, in poche parole, Bompiani, Milano 2000
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